Pino Maniaci
Fino a qualche giorno fa di Pino Maniaci sapevo solo che era un siciliano senza paura che attraverso la sua Telejato denunciava le malefatte di Cosa Nostra. E’ stato il mio amico e collega Manfredi Lamartina a darmi la possibilità di dare un volto a quel nome e di conoscere più a fondo la sua coraggiosa battaglia.
Manfredi era venuto a sapere che mercoledì 19 novembre Maniaci avrebbe premiato un rapper palermitano allo Iulm di Milano, in occasione del “Premio videoclip 2008”. Così mi chiese di accompagnarlo per realizzare un servizio.
Arrivati in facoltà, non appena le porte scorrevoli si aprono, sento Manfredi dire: “Eccolo lì”. Malgrado l’ingresso trafficato, lo individuo subito. Un uomo piccolo e magro, il classico tipo che si conserva elastico e agile nonostante l’età, sulla sessantina. Mi colpiscono i suoi curatissimi baffoni alla Nietzsche, che dominano un volto scarno e solcato da lunghe grinze.
Maniaci riconosce subito Manfredi, a cui aveva rilasciato un’intervista alcuni mesi fa: sembra contento di vederlo e lo saluta con calore e un doppio bacio. Vengo presentato e la sua stretta di mano è forte e affettuosa. Posso scorgere una febbrile inquietudine nei suoi occhi che si muovono vivaci dietro gli occhiali, assumendo sguardi teatrali e ampiamente espressivi. Difatti molte frasi restano a metà: il resto, da buon siciliano, spetta alla mimica, anche quella delle mani.
La prima impressione che ne ricavo è di un uomo perfettamente a suo agio nei panni di paladino a rischio dell’antimafia. Ci dà il suo consenso per un’intervista.
Quelli che lo accompagnano lo invitano a prendere un caffè al bar. Maniaci invita di rimando anche noi e, mentre ci avviamo, tenendo sottobraccio Manfredi gli chiede: “Hai visto questo?”, “Quella puntata l’hai vista?”. Capisco che si riferisce ai servizi di Telejato. “Dalla Stalla…”. Intervengo: “Cos’è la Stalla?”. La Stalla è una zona di Partinico. “Un’area abusiva da dove la mafia gestiva i suoi traffici che ora è stata smantellata”. Grazie alla crociata di Maniaci. “Ottenuta la delibera per la demolizione, nessuna ditta ha voluto eseguire i lavori. Abbiamo fatto venire i guastatori dell’esercito”. Da allora Maniaci conduce i suoi programmi seduto su una sedia in mezzo alla Stalla, divenuta ormai un simbolo.
Al tavolino del bar, nonostante mi conosca da un quarto d’ora, mi rende partecipe di indiscrezioni scottanti, segreti non troppo difficili da scoprire, della sua personalissima sfida alla mafia.
Mi ricordo che è sotto tutela. Qualcosa di simile all’essere sotto scorta. Il mio istinto paranoico mi porta a pensare che, probabilmente, mentre noi tre stiamo chiacchierando, qualcuno potrebbe guardarci, qualcuno potrebbe riferire. Oppure qualcuno potrebbe sparare… Allontano queste possibili sciocchezze. La mafia non è sconfitta, dice. L’hanno piegata e colpita duramente, ma è ancora lontana dall’essere battuta, come da molte parti si inizia già a raccontare.
Maniaci parla e parla, racconta ed è tranquillo anche quando accenna a macchine bruciate, intimidazioni, contatti troppo ravvicinati della figlia – anche lei impegnata con il fratello nell’attività di denuncia condotta dal padre – con superboss dai “portafogli a soffietto” e senza scrupoli.
Nel suo coraggio si specchia l’assenza del mio. Già schierarsi pubblicamente contro la mafia, impegnarsi contro di essa, deriderla e sputtanarla, è un atto di eroismo incosciente. Farlo poi con la collaborazione della tua famiglia, dei tuoi figli, è follia pura e semplice.
Lo ascolto con attenzione, ma nella mia testa si fa strada un pensiero filmico e parallelo. Mi vedo in un futuro imprecisato, davanti a un microfono e a un giornalista che parla. “Lei ha conosciuto Maniaci, con il suo assassinio la mafia ha vinto?”.
Si dice che i sogni, anche quelli ad occhi aperti, se comunicati non si avverano.
Questo post vuole essere un omaggio e un’occasione per scongiurare una tragica eventualità.
Pietro Bellantoni