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Devasta decine di auto armato di appendiabiti

Ventiquattro auto devastate, vetri infranti dappertutto e sangue sull’asfalto. E’ il bilancio di un quarto d’ora di follia andata in scena la scorsa notte in via Vallazze a Milano. Un uomo di colore, probabilmente extracomunitario, intorno alla mezzanotte ha iniziato a sfasciare i parabrezza posteriori delle auto posteggiate, armato di un comune appendiabiti di ferro. I proprietari delle auto e i passanti per parecchi minuti non hanno potuto fare altro che assistere immobili alla furia distruttiva del giovane, alto circa un metro e 90 e visibilmente in stato di alterazione psichica. L’aggressore si è pure scagliato contro la prima volante della polizia intervenuta, distruggendone anche in questo caso il parabrezza, prima di venire definitivamente bloccato dagli agenti.  Sul corpo presentava diverse ferite dovute ai vetri frantumati. Da quanto si apprende, l’uomo sarebbe fuggito dall’ospedale psichiatrico dove era ricoverato.

Pietro Bellantoni

Niente multe, solo sei vigili in piazza Vittorio

Ti aspetti una rivoluzione e invece è tutto come prima. La solita coda lunghissima di auto circonda le vie attorno a piazza Vittorio. Nella notte fra venerdì e sabato, i posti auto sono esauriti già alle 22, compresi quelli riservati ai residenti. Le nuove regole che puntano a limitare la sosta selvaggia non hanno dissuaso nessuno.

Il popolo della movida torinese è sempre lì, davanti alle entrate dei locali e attorno alle panchine. Piazza Vittorio a mezzanotte è il solito parcheggio abusivo, le auto parcheggiate in violazione di qualsiasi divieto: nei posti riservati ai disabili, davanti ai cassonetti, in mezzo alle carreggiate.

Due vigili, gli unici della piazza, presidiano l’entrata dei Murazzi. Funzionano i nuovi divieti? «Diciamo che è una norma sperimentale». Esitano, non possono dire tutto quello che vorrebbero. Poi, però: «La verità è che abbiamo paura. Questa zona è piena di teste calde, venticinquenni dopati e con troppo alcol in corpo». Secondo loro le nuove regole hanno poche chance di essere applicate: «Siamo pochissimi. In questo momento solo in sei in tutta la zona. Anche volendo, non sapremmo da dove iniziare. E poi non abbiamo avuto disposizioni diverse rispetto ai giorni scorsi».

Tutt’intorno sciama il popolo della notte torinese, allegro, rumoroso, a volte molesto. «Molti problemi sono irrisolvibili – prosegue il vigile -. L’entrata del parcheggio sotterraneo è accessibile soltanto dalla piazza. Così tutti quelli che la attraversano possono giustificarsi dicendo che si stanno dirigendo al parcheggio». Questo per le auto in transito, ma per quelle in sosta? «Abbiamo avuto ordine di stare qui e qui stiamo».

E’ anche la notte d’esordio dei vespasiani mobili: sono due, grigi e simili a opere d’arte contemporanea. L’Amiat li ha installati dietro le arcate di via della Rocca e via Giulia di Barolo. Non sono in vista e non c’è neanche un cartello a segnalarne la presenza. Quello in via della Rocca è stato sistemato accanto a due bidoni di immondizia stracolmi. Molti si schifano e altri lo superano senza neanche vederlo. Chi se ne accorge, lo indica ridendo. Forse serve un po’ di tempo per abituarsi all’idea. Infatti un gruppo di ragazzi visibilmente alticci cerca un angolo buio dove espletare gli impellenti bisogni. Il risultato è che durante tutta la notte sono in pochi ad usarli. «Davvero sono dei vespasiani? Che forma strana hanno…». Carlo è sorpreso, ma visibilmente contento dell’iniziativa: «E’ una grande idea, almeno finirà quello schifo che c’era prima». Altri, come Giovanni, ne criticano l’aspetto ma non l’utilità: «Mi sembra che la forma richiami troppo l’atto, che è pur sempre un momento privato. Però è una buona iniziativa, meglio che farla negli angoli come si faceva prima».

Pietro Bellantoni

Un inferno chiamato autostrada

 Alcuni, prima di imboccare la corsia di accelerazione, tenendo fermo il volante con la sinistra, fanno il segno della croce. Altri portano automaticamente la mano ad accarezzare il cornetto rosso scaccia sventura. Altri ancora, nel momento fatale, voltano lo sguardo al sedile del passeggero, verso i loro cari, amici, parenti. Si assicurano che abbiano indossato la cintura di sicurezza. Ma la maggior parte dei calabresi ormai non ci fa più caso. Entrano nelle carreggiate infernali persuasi, per forza di cose, che tutte le autostrade del mondo siano come la loro, l’ormai mitica, o forse mitologica come i mostri, SA-RC.

L’autostrada che collega la Calabria al resto della penisola, più di ogni altro simbolo rappresenta l’emblema di una regione distaccata, quasi irraggiungibile, diversa, pericolosa. I calabresi hanno messo squame d’acciaio sulle loro auto e sul loro coraggio. Quotidianamente la percorrono imponendosi dei surplus di concentrazione e attenzione spesso non necessari a chi viaggia al nord. Conoscono i rischi. Prova ne sia che gran parte degli incidenti riguarda persone estranee a questo tipo di viabilità alternativa (nel senso letterale dell’alternanza: si è sballottati continuamente da una corsia ad un’altra, da una carreggiata ad un’altra), provenienti dal resto del Paese o stranieri.

Villa san Giovanni. L’auto macina asfalto velocemente mentre, prettamente sulla corsia di sorpasso, cerca di farsi largo fra i grandi tir appena sbarcati dai traghetti FS e Caronte. Hanno molta fretta gli autisti, chiedono tutto ai loro motori potenti nell’illusione di poter recuperare il tempo perduto per l’imbarco a Messina, poi per la traversata dello Stretto, lo sbarco. Quanto lo vorrebbero il ponte! Un ticket e via, Sicilia e Calabria unite da questo colosso ipertecnologico, a quattro corsie, orgoglio architettonico italiano nel mondo. Ma cotanta perfezione mal si concilierebbe con l’inefficienza trentennale della SA-RC.

Santa Trada. Fra Villa e Scilla, il primo accenno di un calvario lungo 400 km. Deviazione, corsia destra chiusa, tutti a sinistra. I cassoni dei camion spinti all’estremo ondeggiano pericolosamente per seguire i birilli posti al centro della carreggiata. Poche centinaia di metri e la strada torna regolare e ordinata. Tre gallerie male illuminate e si arriva a Scilla. Di nuovo la strada torna a restringersi e stavolta non per pochi metri. Si cammina incolonnati per un km e lo sguardo non abituato a questo modo di procedere è attratto dal corridoio vuoto. Sembra tutto in perfetto stato, l’asfalto è integro, non ci sono operai con giacche rifrangenti arancioni al lavoro. Semplicemente è chiuso e il perché non è immediatamente comprensibile. 2 km e un cartello eloquente. Due carreggiate e una freccia puntata a sinistra che le attraversa. I paletti stringono sempre più fino a spingere le auto verso una ripida discesa, il collegamento di due strade asimmetriche: una più in alto, l’altra più bassa. C’è uno stop. Per entrare in corsia bisogna attendere che non arrivi nessuno sfrecciando alle spalle. Poi, prima innestata e giù l’acceleratore per togliersi in fretta da un guaio. La carreggiata porta a sud, ma qui anche a nord. Chi sale e chi scende, in un’unica e angusta strada, solo dei birilli di plastica a separare. Colonne di auto a sinistra, colonne di auto a destra.

Guidare e vedere la mole rumorosa dei camion correre a pochi metri dalla propria fiancata è un’esperienza unica. I brividi sono costanti. Uno starnuto e una piccola sterzata provocherebbero un’ecatombe di auto e uomini. Un insetto fastidioso nell’abitacolo causerebbe l’effetto domino ben espresso dall’esempio della farfalla che sbatte le ali in Cina. Un guasto all’auto bloccherebbe il traffico per ore. Le autorità hanno chiesto pazienza ai viaggiatori: sono in corso i lavori di ammodernamento nel tratto fra Gioia Tauro e Reggio, diversamente non si può fare. Ma i calabresi da quando è stata costruita non hanno mai visto la loro autostrada agibile. Quella che cercano di far passare come una condizione straordinaria, di fatto è sempre stata la regola.

In fila indiana, la lingua d’asfalto s’inerpica sui costoni dell’Aspromonte. La strada in salita porta pian piano verso il punto più alto di tutti i 400 km. Qui si snoda uno dei ponti più alti d’Europa. Collega un paio di valli e dal basso i suoi sostegni sembrano i trampoli di un gigante. Si torna sulla carreggiata nord, ma i paletti sono ancora lì a segnare una corsia unica. Questo è forse uno dei tratti più pericolosi dell’intero percorso. La strada adesso è delimitata da blocchi di cemento pesante alti e spessi. Fino a pochi anni fa, invece, a separare i viaggiatori dal baratro c’era soltanto un guardrail rinforzato e raddoppiato in altezza, fasciato da una rete metallica.

Questo è lo scenario che ha dato materiale per decenni a cronache di vere e proprie carneficine, incidenti spaventosi spesso ignorati dall’opinione pubblica. Se si potesse raggiungere a piedi, la zona sarebbe colma ad ogni metro di mazzi di fiori a ricordo delle tragedie che qui si sono consumate. Padri, figli, famiglie intere distrutte, annientate, inghiottite dall’infinito gorgo che da decenni la SA-RC continua ad alimentare.

Tutt’intorno gli scheletri di montagne scarnificate, prossime ospiti del nuovo percorso, oggetto delle cure della Impregilo, la società di costruzioni più grande ma anche più discussa d’Italia. Fra colonne di fumo denso e movimento incessante di mezzi pesanti, i lavori di cantiere procedono regolarmente. Affidati, per lo più, in subappalto alle ditte locali, le quali si servono dei mezzi per le grandi opere della Impregilo, quelli per la trivellazione delle rocce o per il trasporto dei materiali di sostegno ai ponti e gallerie, ma sostanzialmente hanno il controllo dei cantieri. Le infiltrazioni della ‘ndrangheta sono certe e l’interesse a che i lavori proseguano ad oltranza, con gran dispendio di denaro pubblico, pure. D’altronde è così che funziona su quest’autostrada da decenni. Non è la negligenza o l’incompetenza dei costruttori e degli amministratori a determinare i cantieri perenni sulle strade, bensì una volontà precisa, perpetrata proprio da coloro che ne traggono beneficio.

A queste altitudini e in queste condizioni di viabilità la cosa peggiore che può capitare sono i banchi di nebbia, purtroppo molto frequenti”, dice Giuseppe, barista della stazione di servizio di Bagnara, “si è costretti ad andare avanti a tentoni, senza un punto di riferimento perché spesso le strisce sono sbiadite, con le auto che procedono nell’altra corsia nel senso opposto. Senti solo il rumore del motore, o lo sferragliare dei tir. In quel caso non resta che raccomandare l’anima a Dio”. E’ una situazione temporanea? “Si viaggia così da sempre”.

Palmi. Finito il lungo ponte, l’automobilista ha la possibilità di testare efficacemente la reattività di risposta alla sterzata della propria macchina: dei birilli colorati tracciano una gincana folle, a volte di difficile interpretazione. Dalla corsia destra alla sinistra, poi di nuovo a destra per trasferirsi una curva dopo nella carreggiata sud. Si va avanti così per chilometri. Con la paura di sbagliare. Di immettersi per sbaglio nel corridoio contrario. Di trovarsi di fronte all’improvviso un’auto che viene incontro, senza possibilità di fuga.

Gioia Tauro. Ogni variante al percorso ufficiale implica lo scontro frontale. Morte sicura.
A osservare con occhio lucido la SA-RC ci si stupisce che dopotutto la maggior parte dei viaggiatori ne esca indenne. Attraversandola ci si rende conto di quanto è vicina la morte, di come, alla fine, ci accompagni sempre, nella vita e ad ogni curva, ad ogni frenata. Un’autostrada metafora di una vita che resiste.

Rosarno. All’uscita dall’ultimo paletto, dopo 65 km percorsi pericolosamente, gli automobilisti danno gas, finalmente la strada sembra allungarsi nella normalità. L’asfalto è nuovo, le strisce perfettamente visibili, la carreggiata larga con l’aggiunta della corsia d’emergenza. E’ un tratto ultimato da poco. Ma è solo un tratto. La normalità dura solo 15 km. E chissà per quanto tempo ancora.

Vibo Valentia. Lo stato d’emergenza da queste parti è stato da molto tempo assunto come regolarità. A terra le strisce sono gialle: il segnale indica a chi viaggia che l’autostrada è temporaneamente non in perfette condizioni e lo esorta a fare attenzione. Solo che quelle strisce sono gialle da più di 20 anni. Cantieri aperti ai tempi della prima repubblica e mai chiusi.

La SA-RC è una manna per tutte le cosche calabresi. Ogni famiglia ha il suo tratto da gestire e la sua fetta di finanziamenti da intascare. Le imprese di costruzioni che operano sull’autostrada, usano strategie ormai consolidate nel tempo. Una di queste riguarda l’uso dei materiali. Senza tener conto dei progetti iniziali, si utilizzano prodotti scadenti di facile usura, in modo tale da rendere necessari interventi continui di manutenzione.

Lamezia terme. Le strisce gialle seguono il tragitto fino all’uscita a Lamezia. Luogo dell’affarismo mafioso, della ‘ndrangheta capitalista. Le pale eoliche ingombrano i monti circostanti, ma sono tutte ferme. Camminare in questa piccola cittadina di poche decine di migliaia di abitanti può dare l’impressione di trovarsi in una grande città del nord. Lungo la statale, ogni 50 metri si erge una concessionaria d’auto. Tutte le marche più famose, ma anche le emergenti giapponesi e indiane. In città lungo ogni via, ad ogni angolo di strada, le insegne degli istituti di credito. Ce ne saranno una trentina. Supermarket e centri commerciali sono distribuiti capillarmente su tutto il territorio. L’aeroporto di Lamezia, in pochi anni, da punto di snodo marginale è diventato lo scalo più importante della Calabria, con voli anche internazionali.

Un sistema che funziona insomma (anche troppo, per la verità), segno che anche qui, se c’è la volontà, le cose possono funzionare come in ogni altra parte d’Italia. Una testimonianza delle capacità, purtroppo quasi sempre sopite, di questo popolo, che stride con la bolgia di lamiere e cemento della SA-RC. Un cantiere perpetuo che nessuno ha intenzione di chiudere visti gli interessi economici in ballo. Un percorso a ostacoli e un gioco alla morte che confina sempre più la Calabria nel suo mondo, incomprensibile per lo più al resto d’Italia.

Pietro Bellantoni